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RECENSIONI   /   cinema   /   Diario non ufficiale del 69 Festival di Venezia (5)

(martedì, 4 settembre 2012)

20120904-131112.jpgSono pronto a considerarlo un mio limite, ma non amo molto i film europei che parlano del 68. C’è sempre qualcosa che non mi convince del tutto, un’afflato nostalgico che si mescola con recriminazioni e sensi di colpa di vario genere. In altre parole c’è sempre qualcosa che non mi quadra, ho sempre la sensazione che ci sia qualcosa di intimamente irrisolto in racconti di questo genere, qualcosa di non del tutto autentico. In generale

è questa la sensazione che mi ha dato Apres Mai, una pellicola di Olivier Assayas che prende le mosse “dopo” il maggio francese, ripercorrendo illusioni, speranze e storture del movimento rivoluzionario di quegli anni. Un movimento già fuori tempo massimo dal punto di vista storico. Il tutto è mescolato al punto di vista di un liceale che vive tutte le prime esperienze amorose, politiche, le prime perdite (la giovinezza è un altro luogo comune di questo tipo di film, dunque geneticamente nostalgici). Alla fine è un romanzo di formazione come altri, del tutto innocuo.
Il secondo film è stato Disconnect, di Henry Alex Rubin. Fin dal titolo l’intento moralistico del film è evidente. Siamo connessi a internet e siamo disconnessi nelle relazioni “reali” (come se esistesse un “più reale del reale”). Allo stesso tempo il titolo sembra un appello del tipo “scollegatevi! internet mangerà i vostri bambini”. Il film è tipo Crash e si articola su tre vicende connesse tra loro. Abbiamo un ragazzo che crede di comunicare con una coetanea su Facebook; in realtà la giovane non esiste ed è impersonata da due ragazzi che vogliono fare uno scherzo crudele. A una coppia che ha perso la figlia viene rubata l’identità e tutti i risparmi. Una reporter intervista uno spogliarellista virtuale che si esibisce tramite webcam. Lo scopo del film (anche se il regista in un intervista ha tentato di negare) è quello di mostrare i pericoli e le storture di internet. Un po’ come fare, ai primi del novecento, un film che dimostra che le automobili non solo uccidono, ma stanno anche facendo dimenticare agli uomini l’uso delle gambe. È vero che ci sono incidenti stradali letali, ed è anche vero che molte persone camminano poco, ma questa è solo una parte della verità, che nasconde tutti gli usi positivi degli autoveicoli. Film parziale e ideologico.
Finalmente ho avuto una boccata di aria fresca grazie a Kim Ki-Duk e il suo Pietà, storia di un usuraio che si trova di fronte alla porta di casa la madre che lo aveva abbandonato alla nascita. Non è una pellicola facile, anche perché più che un film sulla pietà sembra un film sulla mancanza di pietà tra gli uomini. Ci sono scene molto dure, spesso al limite dell’intollerabile e c’è una scena di violenza sessuale di cui avrei fatto volentieri a meno, ma nonostante questo resta un film intenso e molto significativo. Uno di quei film su cui bisogna ragionare per bene, prima di azzardarsi a dire qualcosa di sensato (più o meno).

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