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RECENSIONI   /   cinema   /   Diario non ufficiale del 69 Festival di Venezia (6)

(mercoledì, 5 settembre 2012)

20120905-120539.jpgLo ammetto, quando sono ai Festival di cinema, l’idea di vedere i film di determinate nazionalità mi mette più ansia di altri. Lo so, non è una cosa bella da dire e non vorrei sembrare razzista, ma è un riflesso involontario, qualcosa che mi prende alla bocca dello stomaco e non riesco a controllare, almeno nei primi secondi. Poi, cerco di lavorare su me stesso e provo a fare training autogeno e a convincermi che le cose non possono andare sempre come me le immagino. Poi, le cose vanno esattamente come pensavo. Male. Profezia che si autoavvera? Può darsi. In ogni caso, stavo parlando di cinema portoghese. Mi dispiace portoghesi, vi amo tutti, ma il vostro cinema proprio non mi entra nel cuore. Il film della mattina è stato Linhas de Wellington, le linee di Wellington, un polpettone storico di due ore e mezza sull’invasione Napoleonica di Massena in Portogallo.

Doveva essere un progetto di Raul Ruiz, ma dopo la sua morte la regia è stata assunta da Valeria Sarmiento, sua moglie e montatrice. Ritornando al discorso di prima, perché la parola “saudade” deve ritornare per forza in ogni film portoghese? Perché la stampa internazionale se lo aspetta? Perché è un requisito per ricevere finanziamenti pubblici? Semplicemente perché non ne possono fare a meno? Non si sa. In questo caso viene pronunciata da Michel Piccoli nel ruolo di Massena “i portoghesi sono un popolo malinconico… Saudade, la nostalgia per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. All’improvviso, durante una conversazione, fanno delle lunghe pause e si perdono nei loro pensieri. Poi si rimettono a parlare come se nulla fosse”. Forse è così il cinema portoghese. Forse è per questo che non mi piace.
Nel pomeriggio ho visto Anton è qui, un documentario su un ragazzo autistico. La situazione dei ragazzi autistici non è facile in nessun paese e la preoccupazione di ogni genitore riguarda il destino dei loro figli dopo la loro scomparsa. In Russia forse la situazione è più difficile che in altri paesi. Viene raccontata la vicenda di Anton, che ama scrivere, e di sua madre che non si può occupare di lui per via di un male che la porterà via. Anton fa avanti e indietro per vari istituti, ma si capisce che una situazione definitiva è davvero difficile e che l’ombra dell’ospedale psichiatrico pende sempre su di lui. Anton è fortunato perché ha una rete sociale intorno a lui, ma altri probabilmente lo sono molto meno. Un documentario asciutto e toccante, realizzato com mezzi poverissimi e tanta umanità.
Il caso della giornata è stato Spring Breakers di Korine, che è stato accolto in manier diametralmente opposta dalla critica. Alcuni lo hanno esaltato e altri l’hanno trovato semplicemente insopportabile. Io faccio parte dei secondi. La vicenda in breve: quattro ragazze per andare in vacanza rapinano un fast food. Vanno a Miami e dopo un po’ di notti brave fatte di alcol, cocaina e “quasi sesso” (non c’è un riferimento esplicito a rapporti sessuali), vengono arrestate. Le libera un gangster interpretato da James Franco, probabilmente nel punto più basso della sua carriera. Il problema di questo film è la presentazione di un’estetica da videoclip pornosoft, con tette finte, armi da fuoco finte e denti finte. Un mondo colorato che vorrebbe allo stesso tempo accattivare e respingere lo spettatore con l’unione di violenza e sensualità (spesso adolescenziale, ottima scelta Korine! I pervertiti di mezzo mondo ringraziano!). In una scena terrificante, l’ormai screditato Franco mima una fellatio a due pistole automatiche… Mi chiedo se la mia mente riuscirà mai a cancellare questa immagine. Diversi critici ci hanno visto chissà che, a me sembra che ci sia solo tanta paraculaggine da parte del regista.

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