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RECENSIONI   /   musica   /   Intervista a Veronica Sbergia dei Red Wine Serenaders per D.O.C.

(venerdì, 2 marzo 2012)

Mi era capitato di intervistare Veronica Sbergia ad Avigliana, nell’ottobre del 2011, e devo confessare di essermi tenuto questo tesoro nascosto in cassaforte per tutto questo tempo per festeggiare la nascita del mio sito.

Comincio col dire che D.O.C. è un disco davvero molto particolare, caratterizzato da grande energia e vitalità, la stessa vitalità che chi segue i Red Wine Serenaders dal vivo ben conosce. Un album con tredici pezzi provenienti da varie epoche e da varie fonti ma tutte riconducibili alle radici della musica tradizionale statunitense, e naturalmente al Blues.

Il disco si apre con un interrogativo: “Cosa succede se cinque musicisti si chiudono per cinque giorni in una stazione ferroviaria con un po’ di amici e un bel numero di bottiglie di vino? Il risultato è nelle vostre mani”.

- Allora Veronica, com’è questa storia della stazione ferroviaria?

Avevamo già tentato di fare una precedente incisione nel teatro di questa vecchia stazione di Ora, in provincia di Bolzano. All’interno di questa vecchia stazione c’è un circolo Arci e al suo interno c’è un piccolo teatro molto carino che hanno ricavato nella sala d’aspetto di prima classe. Poco più in là c’è la casa del capostazione dove ora vive Mauro Ferraresi, uno dei componenti dei Red Wine Serenaders. Siamo sempre stati affascinati dal teatro della piccola stazione e volevamo registrare un live lì, perché in effetti chi ci viene sa sentire sa che il bello dei nostri concerti è proprio il live. E’ difficile che facciamo un pezzo in due modi identici.

- Com’è andata l’incisione dal punto di visto tecnico?

Abbiamo fatto una registrazione nel piccolo teatro ma i suoni non erano abbastanza buoni. Abbiamo trovato il compromesso di registrare non in teatro che richiedeva un impegno tecnico troppo complesso: andare a registare nella camera da letto di Mauro che è tutta di legno. Quindi un ambiente piccolo, raccolto e meno risonanza, come se fosse uno studio di registrazione in camera da letto. Tutti i pezzi sono in presa diretta con qualche piccolo arricchimento. Max fa un assolo di ukulele in un pezzo in cui suona la chitarra, quindi era tecnicamente impossibile fare le due cose insieme. Ci siamo chiusi per cinque giorni. Il primo giorno abbiamo buttato tutte le registrazioni. Demoralizzatissimi. Però abbiamo capito cosa andava e cosa dovevamo rivedere e da questo lavoro intenso è nato il disco.

- E’ un disco molto diverso rispetto a Veronica & the Red wine serenaders…

La profonda differenza di questo disco rispetto a quello precedente è che (come è udibile) io non canto tutti i pezzi, è un disco più globale, più corale. Ciascuno si è scelto i pezzi da cantare. Io mi sono sempre orientata sulla ballata romantica e sui pezzi di Memphis Minnie che a me piacciono molto. Mauro che è più roots/delta come estrazione ha scelto dei pezzi più simili alla sua espressione artistica, quindi un canto di lavoro, un gospel alla Reverend Ray Davies come Samson & Delilah che sono tutti pezzi tradizionali. Max ha optato per un pezzo della Memphis Jug band, On the road again (1928), che già eseguivamo in concerto da tempo. Poi c’è You rascal you, che è un pezzo tradizionale nel senso che non sa chi sia l’autore ma è stato eseguito da moltissime formazioni. C’è una versione molto famosa di questo pezzo eseguita da Louis Armstrong, in accompagnamento a un cartone animato di Bettie Boop. Alessandra è più “moderna” nella scelta dei pezzi, per esempio ha selezionato una canzone cantata da Julia Lee, famosa cantante pianista degli anni ’40. Lei in Lotus blossom (1947) parla di questa sostanza stupefacente che è la marijuana, grazie alla quale lei riesce ad affrontare una delusione d’amore.

- La marijuana? Davvero?

Nella cultura jazzistica di quel periodo si scrivevano tante canzoni che avevano come tema l’alcol, la marijuana, la dipendenza da sostanza, ma soprattutto proprio della marijuana… in realtà il titolo originale di questa canzone, Lotus blossom, era Sweet marijuana e lei superava la delusione d’amore per quest’uomo che era fuggito con un’altra fumandosi un “cannone” ed entrando nel suo paradiso artificiale… una visione della vita alla Baudelaire. Non era però una questione di “sballo” perché la funzione era quella di dimenticare i momenti difficili, gli stati emotivi negativi entrando in un mondo immaginario. Una fuga dalla realtà.

- Un’altra canzone che ami, di questo disco?

A me piace molto Out on the western plains, portata al successo da Leadbelly, perché la nostra versione ha un andamento un po’ alla Morricone, queste atmosfere western…

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