scrittura / Chi può definirsi scrittore?(venerdì, 11 dicembre 2015)Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un commento su Facebook (i commenti su Facebook… the horror… the horror…). Non ricostruisco l’intera vicenda perché non è molto interessante: queste vicende di battibecchi su Facebook non sono mai particolarmente edificanti, basti dire che metteva in dubbio la possibilità di definire “scrittore” chi era ricorso alla autopubblicazione (senza sapere effettivamente nulla sulla qualità dello scritto in questione). Il punto è: chi è uno scrittore? Viviamo in uno strano paese. L’Italia è la terra delle gilde e delle corporazioni, per cui qualunque professione è un titolo onorifico prima di essere un termine che illustra un’attività. Fortunatamente non esiste un albo professionale degli scrittori (mentre ahimé, esiste un ordine dei giornalisti). Eppure la parola “scrittore” resta una parola tabù, un’insegna da guardare con grande rispetto ed estrema riverenza, come una spilletta che solo in pochi si possono appuntare sulla giacca senza suscitare la riprovazione di grandi e piccini. Bisognerebbe ricordare tuttavia, che “scrittore”, tecnicamente è solo una parola che denota un’attività. La parola scrittore non dice nulla sulla qualità di uno scritto. In altre parole (e sento un certo disagio a dire un concetto così banale) scrittore è chi scrive. Sembrerebbe lapalissiano. Invece anche questa semplice affermazione risulta problematica. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, esiste il fenomeno degli “scrittori che non scrivono”, per lo più ebrei (ma soprattuto ebree) sopravvissuti alla Shoah che rielaborano continuamente i fatti di cui sono stati testimoni, ma che non riescono a mettere le parole sulla carta. Alcuni scrivono cinque, dieci, venti anni dopo. Pensano continuamente a scrivere, ma non scrivono. Poi alla fine scrivono. Si può dire che non siano stati scrittori? Poi è esistito (e credo esista ancora) il fenomeno degli scrittori che non pubblicano. Era un fenomeno molto diffuso nei paesi dell’ex blocco sovietico, tanto che in polacco esisteva la frase “pisac do szuflady”, cioè scrivere per il cassetto, come se quest’ultimo fosse l’unico destinatario possibile di scritti altrimenti proibiti. A volte un manoscritto restava davvero in un cassetto. A volte trovava una piccola distribuzione clandestina, molto spesso sotto pseudonimo. A volte si scriveva solo per soddisfare un bisogno, per trovare uno sfogo, per avere un dialogo con se stessi su argomenti di cui non si poteva parlare. Forse, si potrebbe obiettare, uno scrittore è chi vive della propria scrittura. Qui la questione si fa tosta, perché lo scrittore di professione inizia a diffondersi solo dal XIX secolo. Prima la scrittura non è una professione, ma un hobby per le classi più agiate. Se prendessimo questo come parametro di riferimento, dovremmo dichiarare che Dostoevskij era sì uno scrittore perché viveva della propria scrittura, mentre invece Tolstoj non lo era senz’altro, visto che era essenzialmente un nobile con ampi possedimenti. Anche ai giorni nostri gli scrittori che hanno un “lavoro principale” sono davvero tanti, e forse sarebbe sbrigativo definirli “hobbisti”. Poi si apre la questione della casa editrice. Forse è scrittore solo chi è selezionato e supportato (per non dire sopportato) da una casa editrice. Il problema da qui si ramifica: quale casa editrice? Chi scrive per una piccola casa editrice è uno scrittore con la “S” maiuscola? Esiste una gerarchia editoriale? Da quale punto della classifica in su ci si può definire scrittori? Da questo momento si può andare avanti di limitazione in limitazione, circoscrivendo e precisando sempre di più cosa caratterizza uno “scrittore” da un “non scrittore”, fino a giungere a un ideale empireo della scrittura in cui resta una manciata di eletti baciati dall’ispirazione divina. Arriviamo ora al dunque: chi si pubblica da sé, è davvero uno scrittore? Supponiamo che non lo sia. In questo caso saremmo costretti a definire “non scrittori” Edgar Allan Poe, Mark Twain, Walt Whitman, Marcel Proust, James Joyce, Gertrude Stein… ripeto: pubblicare da sé o tramite casa editrice più o meno blasonata, non è di per se un indicatore della qualità della scrittura. Del resto molto spesso gli editori, che partono da considerazioni commerciali, non hanno molto “naso” per… gli affari. Basti pensare ai 12 (dodici!) editori che hanno rifiutato J. K. Rowling, la “mamma” di Harry Potter. Non tutti quelli che scrivono hanno la potenzialità di mutare la propria opera in un successo commerciale o, tantomeno, in un capolavoro della letteratura. C’è qualcosa che unisce tutti quelli che scrivono: il bisogno di raccontare una storia. Storie personali, storie, inventate, storie necessarie, storie vere o false ma pur sempre storie. Storie che potrebbero trovare occhi pronti a leggerle o che potrebbero cadere nel dimenticatoio. Magari per essere riscoperte in futuro, troppo all’avanguardia per i tempi bui in cui sono state scritte. In Io e Annie Woody Allen parafrasava un modo di dire, completandolo: “chi sa fa, chi non sa insegna, chi non sa insegnare insegna educazione fisica… e chi non sapeva neanche insegnare educazione fisica veniva alla mia scuola”. Lobo (il personaggio a fumetti della DC Comics in cima a questo articolo, noto per violenza e irriverenza) dal canto suo rielaborava in “chi sa fa, chi non sa insegna, e chi non sa insegnare fa il fottuto critico. Togliamo le parole dai paradisi dorati e riportiamole sulla terra: chi sa fa, chi scrive è uno scrittore. Buono, cattivo, mediocre, ma soprattutto qualcuno che “fa”. Continua a fare scrittore, quello è tuo fine più alto.
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il 15 dicembre 2015 alle 17:18 ha scritto:
[...] un precedente articolo avevo parlato di chi sia uno scrittore, chiudendo con una considerazione semplice: uno scrittore [...]