scrittura / Intervista a Olga del blog “Il porco al lavoro”(martedì, 15 gennaio 2013)(La fotografia “Pig” è di Ro Irving, riproduzione effettuata nei termini Creative Commons 2.0) Secondo una stima dell’Istat a 842.000 donne italiane è stato chiesto, nell’arco della vita, sesso per un posto di lavoro o per un avanzamento di carriera. E’ una realtà di molti ambiti lavorativi del nostro paese e per molti è quasi un luogo comune, un fatto accettato per cui al massimo si può sospirare, alzare le braccia e dire a denti stretti “così va il mondo”. Questo modo di pensare ovviamente garantisce che le cose non cambino e che i rapporti di lavoro non diventino mai etici e paritari. Il 24 luglio del 2012 Olga (naturalmente scrive sotto pseudonimo) ha scritto il primo post del suo blog “Il porco al lavoro”, in cui racconta una storia di violenza sul posto di lavoro durata due anni e mezzo. Olga è una giornalista professionista freelance e chi conosce anche solo per sentito dire il mondo della carta stampata italiana, riconoscerà subito l’ambiente: un ambiente fatto molto spesso di approssimazione, raccomandazioni, ignoranza e di scarsa professionalità. Durante questo periodo così lungo, Olga ha dovuto affrontare le molestie insistenti di un suo superiore, anzi del superiore per eccellenza visto che stiamo parlando del direttore di un giornale. Raccontare la propria storia è un gesto che richiede coraggio anche quando è compiuto sotto la tutela dell’anonimato. E’ un atto di coraggio perché vuol dire guardare se stessi e gli altri in maniera spassionata, perché vuol dire dare un nome a trascorsi che spesso vengono fatti passare sotto un’aura di normalità, ma che troppo spesso sono in realtà profondamente traumatici. E se ognuna di quelle donne che hanno alle spalle una storia di violenza sul posto di lavoro iniziasse a parlarne, anche solo in forma anonima, anche solo in un blog, forse cambierebbe qualcosa? Io credo che nel lungo periodo qualche effetto ci potrebbe essere. Per conoscere e capire la storia di Olga vi consiglio di leggere semplicemente il suo blog, dall’inizio o alla fine (o meglio: viceversa visto che sui blog si incontrano i post più recenti per primi). Ho deciso di contattarla per farle qualche domanda specifica sulla scrittura. Ricordi con precisione il momento in cui hai deciso che avresti scritto della tua esperienza? La decisione di scrivere quel che mi è successo è arrivata dopo un percorso di autoconsapevolezza che è durato un po’ di tempo. Non ‘è stata un’epifania, in questo senso, ma un lento e continuo malessere che è sfociato nella scrittura. In quel momento hai anche deciso di rendere pubblici i tuoi scritti? Ho deciso quasi per caso. Volevo condividere le mie esperienze ma non ero certa di riuscire a farlo in modo interessante e convincente. Dopo i primi post pensavo di smettere perché i lettori erano pochi e ripercorrere l’intera esperienza richiedeva sforzi notevoli. Ma poi grazie agli affettuosi incoraggiamenti di Pietro de Viola, autore dell’ebook (diventato poi un libro edito da Terre di mezzo) “Alice senza niente” e di un altro paio di amici che mi hanno sostenuta con forza, ho deciso di andare avanti. Secondo te quale sarebbe stata la differenza tra scriverne e non scriverne? Scrivere significa dare forma ai pensieri, nominare azioni, sensazioni ed emozioni. Significa condividere con qualcuno quel che è accaduto e che poi si è tramutato in ricordo. Scrivere del porco e di me significa fare rivivere questa storia, come se stesse accadendo ora. Per questo motivo ho deciso di usare il tempo presente. E’ un passato che non è mai passato. Dal tuo spaccato emerge un ritratto avvilente del mondo del giornalismo in Italia. Perdona la domanda ingenua, ma è possibile che non esista alcuna forma di tutela per il tipo di esperienza che hai vissuto? Probabilmente avrei dovuto essere meno naif. Avrei dovuto registrare intere conversazioni, convincere le altre colleghe vittime di violenza a reagire. Avrei dovuto incastrare il porco. Ma, per quanto paradossale possa sembrare, mentre tutto questo accadeva io non me ne rendevo davvero conto. Io credevo di farcela, di arrivare, di non soccombere. Quando ho capito che avrei dovuto reagire era troppo tardi. E gli avvocati a cui mi sono rivolta mi hanno detto che non c’era molto da fare, meglio lasciare perdere. Testuali parole. Anche un avvocato del sindacato dei giornalisti si è espresso così. Poniamo il caso che qualcuno voglia aprire un blog simile al tuo in cui raccontare un’esperienza simile alla tua. Quali consigli ti sentiresti di dare sul tipo di scrittura da adottare? Credo che un blog per funzionare debba avere una forte idea di base e molta dedizione. Bisogna avere una specie di ossessione ed essere in grado di trasmetterne la forza. La scrittura viene poi da sé, se si ha una qualche dimestichezza, ovviamente. La mia scrittura viene da anni e anni di letture sfrenate e compulsive. Ho un vero e proprio culto per i libri, li considero dei feticci, li sottolineo al punto da trasformarli, da farli diventare miei. Quali accorgimenti tecnici usare per proteggere il proprio anonimato? Usare un’email senza riferimenti personali e parlare con pochissime persone del proprio progetto. Soltanto con chi sa mantenere il segreto. L’anonimato mi dà la libertà di scrivere quel che davvero è accaduto. Mi protegge dalle minacce – che pure ho ricevuto – e da eventuali cause di diffamazione che potrebbero arrivarmi dal direttore. Perché anche se è tutto vero, quel che scrivo resta la mia parola contro la sua. E io non sono certo potente o ricca come lui visto che la mia “carriera” è stata distrutta. Ora faticosamente sto cercando di mettere insieme i pezzi e ripartire. Ma non è facile. Anche perché di porci, poi, ne ho incontrati altri. Grazie Olga e davvero: in bocca al lupo per il futuro, se non altro è un animale più nobile rispetto ai tanti, troppi porci che popolano questo paese.
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