scrittura / Perché Vauro e il Manifesto sbagliano(sabato, 22 settembre 2012)Ormai si è detto piú o meno tutto sulla famigerata vignetta di Vauro sulla Fornero, sulla libertá di satira e di espressione e sul maschilismo vero o presunto del vignettista di punta del Manifesto. Tutto tranne l’essenziale. Sono stato un lettore del Manifesto per tanti anni e, lo confesso, è un giornale che ha contribuito alla mia formazione in vari modi, nel tipo di coerenza che portava avanti (a cominciare dall’ormai tenero “quotidiano comunista” che appare sotto al titolo) e nel tipo di battaglie che ha portato avanti nel corso degli anni. Per questo sono rimasto stupito. Non tanto dalla vignetta in sè ma dalla presa di posizione di Norma Rangeri, peraltro storicamente molto attenta alle questioni di immagine (sono sempre stato un appassionato lettore delle sue lucide analisi sul mondo della televisione). Una vignetta non è un semplice disegno con una didascalia. È una forma narrativa. Come tale racconta una storia. In un certo senso è il corrispondente grafico dell’epigramma: viene presentata una situazione normale, che viene portata all’eccesso e poi sottolineata da una conclusione paradossale che i latini chiamavano “fulmen in clausula”
e che noi uomini moderni spesso chiamiamo “freddura”. Vauro applica molto spesso alle sue vignette questa forma tripartita, e possiamo trovare questo modello anche nella vignetta “incriminata”. “Fiat. Marchionne” alla prima riga dà il contesto. “Fornero: aspetto che il telefono squilli” è la dichiarazione data dalla Fornero. Fino a qui tutto rientra nell’ambito della cronaca. È nel passaggio successivo (la vignetta) che Vauro dá la sua intepretazione. La Fornero è rappresentata con una serie di attributi a sfondo fortemente sessuali (con buona pace della difesa della Rangeri che scomoda addirittura il sesso degli angeli): le calze a rete, le orecchie da “coniglietta di Playboy”, la biancheria intima e non da ultimo, la sigaretta (attributo tipico della prostituta nell’immaginario maschile d’antan). Il finale è quello che gli anglosassoni chiamano “punchline”, una battuta che sintetizza il tutto: “la ministra squillo”. Se Vauro sia o no maschilista è in realtá un falso problema. La domanda più giusta è chiedersi a quale tipo di immaginario si richiami. L’immaginario al quale si richiama Vauro è quello contro il quale il Manifesto si è battuto per tanto tempo: quello della società patriarcale, quello in cui una donna è destinata a ruoli ben definiti e schematizzati, quello in cui una donna “scomoda” o con la quale non si è d’accordo può essere zitttita con la trita suggestione del mestiere più vecchio del mondo. Si noti che la didascalia in fondo non recita “il ministro squillo”, termine neutro che si riferisce a entrambi i sessi, ma “la ministra squillo”, dai connotati fortemente denigratori e di genere.
Per questo chi si definisce un essere umano pensante e sensibile (e si badi bene, non di sinistra) non può tacere. Non può fare passere certe battute come goliardia o come satira estrema. Difendere chi denigra una donna ridendo, giustificando una battuta sessista, o semplicemente non dicendo nulla al riguardo vuol dire semplicemente diventare complici di un sistema che nessuna persona ragionevole può sostenere. Perché vuol dire favorire un immaginario velenoso e dannoso non per la Fornero (che non è alla radice del problema) ma per ogni donna.
2 commenti
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il 2 marzo 2013 alle 16:54 ha scritto:
sono perfettamente d’accordo con la tua analisi
il 5 marzo 2013 alle 9:14 ha scritto:
Grazie Sonia. Quello che volevo dire in questo articolo è che una battuta sessista è sempre offensiva, e non c’è nessuna presunta “superiorità politica” che la renda accettabile. Per questo bisogna tenere un livello di vigilanza molto alto.